Pubblicato il: 21-3-2024
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Professore, a che punto è il lavoro dello Spoke 1? Quali obiettivi avete raggiunto a oggi?
L’attività dello Spoke 1 si concentra sulla sostenibilità e resilienza delle imprese italiane. Nei Work Package abbiamo individuato quattro dimensioni che consideriamo particolarmente rilevanti per il processo trasformativo che il “sistema Italia” deve intraprendere per essere più competitivo rispetto agli scenari disegnati a livello internazionale dall’Agenda 2030 e dal Green Deal. Scenari, ovviamente, connessi alla trasformazione digitale a livello europeo.
In questo contesto, si insiste sulla capacità delle imprese di cogliere le trasformazioni che riguardano i consumi: nel WP 1.1 stiamo facendo analisi per capire come cambiano le scelte e i comportamenti dei consumatori dal punto di vista della sostenibilità. Usiamo strumenti classici, come survey ai consumatori ripetute ogni sei mesi; ed esperimenti per valutare le dinamiche che legano la capacità dell’offerta di mettere in campo soluzioni più sostenibili e il successo sul mercato.
A questo tema si lega il WP 1.2, basato sulla resilienza del “sistema Italia” e delle sue filiere. Qui abbiamo già condotto una prima, importante attività di rilevazione, che ha già portato a un rapporto strutturato, curato dall’Università Bocconi, che fotografa gli elementi di turbolenza cui le imprese sono state sottoposte in questi anni e i modi con cui si può costruire una maggiore capacità di resilienza.
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Il terzo Work Package tratta le trasformazioni del sistema industriale, particolarmente significative nella prospettiva delle diverse transizioni verso l’economia circolare. In questo caso, ci siamo riproposti di comprendere quali sono le dinamiche di trasformazione verso modelli più circolari anche nelle regioni meridionali del Paese, con riferimento ad alcuni settori, come quello agroalimentare, così importanti per quel contesto. Per farlo in maniera capillare abbiamo impiegato strumenti come il Life Cycle Assessment che consente di comprendere le trasformazioni dei prodotti in tutte le fasi del ciclo di vita – quindi from farm to fork, se vogliamo rimanere nella logica dell’agroalimentare. Ovviamente, ci sono anche settori industriali più canonici come il cartario, le fonderie, e che abbiamo identificato come pilot in questa prospettiva. L’idea qui è di generare dei dataset verticali per supportare imprese e istituzioni. C’è già un dialogo aperto con il ministero dell’Ambiente che si è dotato di un proprio marchio, Made Green in Italy, che valorizza le produzioni italiane di qualità ma al tempo stesso sostenibili, e sono state messe in campo una serie di attività di supporto istituzionale.
Il cerchio è chiuso dal Work Package 1.4, dedicato agli aspetti di misurazione e reporting. Si tratta di una delle sfide più significative nel campo della sostenibilità per le imprese: forte la spinta della Commissione europea con la direttiva CSRD (Corporate Sustainable Responsibility Directive), che amplia il numero delle aziende tenute a rendicontare le proprie performance di sostenibilità. Entra qui in gioco un sistema articolato di costruzione di dati e indicatori, che però non servono soltanto a scattare una fotografia: nell’intenzione del legislatore comunitario c’è la prospettiva strategica del cosiddetto, looking forward: costruire, cioè, scenari di miglioramento. Analizzando le forme di rendicontazione completiamo il quadro di lavoro: peraltro, questa parte ha una forte interconnessione con altri spoke che si occupano della parte finanziaria, perché una rendicontazione di questo tipo è sempre più richiesta dagli attori finanziari. I quali scelgono di sostenere le imprese che si dimostrano più capaci di guardare lontano in termini strategici, e quindi di garantire maggiore affidabilità e anche resilienza.
Il superamento del modello di produzione lineare è il grande tema di questi anni. Ma, nonostante quello di “economia circolare” sia un concetto di gran moda, e che sia nato, peraltro, diversi decenni orsono, definirlo resta problematico. Varie le proposte, ognuna in grado di sottolineare un aspetto. Vogliamo provare a fare il punto?
Ci sono alcune rassegne che raccolgono oltre un centinaio di definizioni di “economia circolare”. Quella più convincente mi pare quella fornita dalla Ellen Mac Arthur Foundation, una istituzione intermedia, che in estrema sintesi definisce la circolarità come “la capacità di essere rigenerativi by design”, quindi sulla base della progettazione di prodotti e processi.
Quindi l’economia circolare, in primo luogo, è un’economia che vuole rigenerare le risorse all’interno del sistema economico. La scarsità di risorse è un tema strutturale, soprattutto con una popolazione che ha superato gli otto miliardi di individui. La capacità di rimettere in circolo le materie prime (le cosiddette “materie prime seconde”) estratte dal pianeta è ancora troppo bassa.
Ma non basta immettere più materie prime seconde nel sistema; bisogna partire dalla progettazione stessa di prodotti e processi. Perché solo concependoli in questo modo saremo in grado di evitare sprechi in tutte le fasi, produzione, distribuzione, consumo e raccolta, fino al recupero attraverso il riciclo. Occorre anche e soprattutto ripensare il set di caratteristiche che i prodotti devono avere. Devono durare di più, abbandonando l’approccio del consumo di massa che ha caratterizzato il secolo scorso, con la logica estrattiva spinta ai massimi livelli. Perché se l’utilizzo di materiali nel pianeta è in fortissima crescita, le risorse sono limitate e un modello di sviluppo tipo circolare è ormai assolutamente necessario.
Bisogna partire dalla progettazione stessa di prodotti e processi. Perché solo concependoli in questo modo saremo in grado di evitare sprechi
Basta una logica rigenerativa?
Direi di no. Facendo un passo in avanti, non ci si può accontentare: ci vuole anche una logica restorative, per dirla con un anglicismo, anch’essa presente nella definizione di Ellen Mac Arthur: pensare a ricostituire il capitale naturale laddove ciò è effettivamente possibile. E, quindi, restituire alla natura la possibilità di fornire quei servizi ecosistemici che per noi sono cruciali. Il primo esempio, classico, è quello dell’acqua; ma c’è anche l’energia. Usare le rinnovabili non significa solo avvalersi di fonti inesauribili, ma anche risparmiare materie prime. Come il petrolio, che può essere usato in altri modi, e non solo per produrre energia.
Tra gli attori chiave dell’economia circolare troviamo i governi, cui spetta il compito di disegnare il quadro normativo. La nascita del club di Roma con la sua riflessione sui limiti della crescita risale a 54 anni fa. Eppure, le politiche stanno veramente cambiando solo oggi, mezzo secolo dopo. Cosa è successo nel frattempo? Per quale motivo si è atteso tanto? E che cosa ha catalizzato questo cambiamento di approccio?
E’ vero, già 50 anni fa si aveva già un quadro chiaro delle condizioni di estrema criticità in cui ci saremmo trovati. O almeno, lo avevano alcuni. L’analisi del club di Roma dal punto di vista della modellizzazione dell’andamento del sistema economico è emblematica in proposito; si aprì allora una fase di politiche che prese in considerazione in maniera decisa la necessità di un modello più sostenibile.
Seguirono passi importanti: dalla fine degli anni Ottanta e poi con la Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 ci fu una piena assunzione a livello di istituzioni internazionali e di una molteplicità di Stati della necessità cogente di agire in questa direzione. Tant’è che l’Agenda 21 e la dichiarazione di Rio, due documenti importanti prodotti all’epoca, contengono già in nuce quelli che sono gli elementi cardine dell’azione da mettere in campo. E non a caso il protocollo internazionale sul cambiamento climatico (il protocollo di Kyoto) nasce proprio come conseguenza, per così dire, della Conferenza di Rio. Ma anche il tema della biodiversità, della gestione delle risorse idriche trovò in quegli anni una spinta forte.
Cosa è successo poi?
Il problema principale è che la comunità internazionale non è stata capace di perseguire con la dovuta determinazione gli obiettivi che scienziati e analisti evidenziavano, sottolineando come fosse necessario agire in tempi abbastanza rapidi. C’è stato senz’altro un trentennio in cui sono state messe in campo delle attività di policy in questo senso; sicuramente l’Europa, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, è diventata una grande protagonista delle politiche internazionali sull’ambiente; ma non si è vista, purtroppo, la capacità di generare azioni così incisive come quelle che sarebbero state necessarie.
La comunità internazionale non è stata capace di perseguire con la dovuta determinazione gli obiettivi che scienziati e analisti evidenziavano
Nel 2015 c’è stato l’accordo di Parigi.
Sì, dal 2015 in poi c’è stata una forte accelerazione. E’ anche l’anno dell’Agenda 2030, improntata alla sostenibilità. In quell’occasione le Nazioni Unite hanno adottato per la prima volta un approccio decisamente più ampio rispetto al loro ruolo fino ad allora, ingaggiando diversi attori con una forte valorizzazione del ruolo delle imprese. Per la verità, si tratta di un’inclusione iniziata molto prima: ma da allora le aziende diventano attori estremamente rilevanti nelle politiche ambientali e climatiche. Perché sono parte del problema, ma anche della soluzione.
E qui torna in scena l’Europa, che, con il Green Deal del dicembre 2019, ha dato piena consistenza a questa logica. Oggi, secondo me, sono entrate in gioco pienamente le banche, assieme agli altri attori della finanza. Si è diffusa la consapevolezza che tutti hanno la loro parte da recitare in quest’ottica, compresi noi cittadini consumatori ovviamente chiamati a una responsabilizzazione molto forte.
Ci arriveremo. Fermiamoci un attimo sulle imprese, altro elemento chiave. Si fa ancora molta fatica, soprattutto in determinati settori, a convincerle a mutare paradigma. Si può pensare, per esempio, ai caricabatterie per i dispositivi elettronici: esiste chi è disposto a pagare sanzioni (forse non abbastanza incisive) pur di continuare a vendere i propri modelli esclusivi; guardiamo, oppure, al diritto alla riparazione, che si basa sulla progettazione di dispositivi facili da smontare e sulla disponibilità di parti di ricambio e di schemi progettuali per poterseli costruire con stampanti 3d: queste politiche sono state avversate con le motivazioni più fantasiose. La domanda è: come si esce da questo circolo? Quale incentivo o complesso di incentivi si possono mettere in campo per spingere le aziende a cambiare approccio senza ricorrere a una logica esclusivamente impositiva?
I meccanismi sono strettamente legati a quanto dicevamo poc’anzi. Una policy funziona quando si è in grado di mettere in campo contemporaneamente diverse forze, che a propria volta generano gli incentivi di cui parlava. Abbiamo già alcuni esempi: le etichette energetiche sugli elettrodomestici hanno funzionato molto bene perché i policymaker (in questo caso, mi riferisco all’Europa) hanno definito con chiarezza quali erano gli elementi di riferimento delle performance di quella classe di prodotti, con particolare riferimento al loro consumo energetico.
Grazie all’etichetta, questo elemento è diventato fortemente visibile al consumatore, e quindi si è attivato un meccanismo di scelta che include le proprie disponibilità economiche – l’energia costa, e quindi acquistare prodotti a consumi ridotti determina una convenienza . Ma, soprattutto, genera una logica di investimento anche nei privati cittadini: se acquisto oggi un frigorifero dotato di determinate performance, posso ripagarmelo tranquillamente in un certo numero di anni con i risparmi.
È facile vedere come questo sia diventato un altro elemento di spinta, congiuntamente al fatto che per le imprese avere un certo tipo di caratterizzazione nel posizionamento nel mercato – produco solo prodotti di classe A – è un fiore all’occhiello. Il risultato è che l’azione congiunta di questi soggetti ha fatto sì che il policymaker potesse dare una sorta di spinta gentile in questa direzione senza obblighi eccessivi, col risultato che gli obiettivi che si volevano conseguire sono stati raggiunti in tempi molto più rapidi del previsto. Se noi applichiamo questa esemplificazione di politica di successo alla logica generale con cui si è mossa soprattutto la Commissione europea nell’implementazione delle politiche sulla circolarità (il tema della lotta all’obsolescenza programmata o la standardizzazione della componentistica, come per i caricatori, o il diritto alla riparabilità) notiamo che sono tutte componenti assolutamente presenti nell’evoluzione del secondo piano di azione sull’economia circolare stilato dalla Commissione europea con i più recenti sviluppi. Compreso l’ecodesign.
È chiaro che in questo caso non stiamo parlando di tutte le imprese, ma di quelle che vogliono sfruttare competitivamente questa opportunità e vanno alla ricerca degli incentivi di cui lei parlava. Il passo successivo è quello di rendere progressivamente obbligatori alcuni dei requisiti di cui stiamo parlando: la Commissione europea si sta già muovendo in tal senso, ma lo si può fare però solo quando c’è già un consenso abbastanza diffuso. Altrimenti prevale la logica impositiva, e soprattutto in un Paese come il nostro con l’imposizione non si va molto lontano.
Che cosa si intende per “simbiosi industriale”? E in che modo può aiutare a migliorare i processi dell’economia circolare?
La simbiosi industriale è uno dei temi chiave che ci proponiamo di approfondire nelle attività di analisi, acquisizione di informazioni e supporto alle decisioni di Grins. Simbiosi industriale significa essenzialmente replicare qualcosa che in natura esiste già: dovremmo imitare molto di più la natura, che in milioni di anni ha imparato tantissime cose.
Per sintetizzare, gli scarti di un soggetto possono diventare l'input per un altro soggetto, in maniera tale che non vada sprecato nulla. Questo si può fare su scala industriale: in settori particolarmente attrezzati ci sono esempi da cinquant’anni di questo tipo di soluzioni, ma diventa interessante estendere questa logica.
Arriviamo, finalmente, al terzo elemento chiave. Nel Work Package 1.1 esplorate il ruolo dei cittadini nei processi di coprogettazione. Si è abituati a pensare che il consumatore sia il semplice terminale delle proposte dell’azienda, in una logica da uno a molti: in che modo può avvenire, invece, questa compartecipazione? Utilizzando quali tecnologie? Per arrivare a che cosa? Come state lavorando in questo senso nello spoke?
E’ evidente che abbiamo bisogno di cittadini consumatori protagonisti, attivi nei processi di cambiamento, e questo fatto può essere favorito dalla tecnologia, ma anche dalla crescente sensibilità su queste tematiche. Si tratta di superare la classica dicotomia tra l’essere sensibili ai temi dell’ambiente e della sostenibilità e praticare comportamenti di acquisto che, poi, così coerenti non sono.
Si è sensibili in teoria, ma non al momento dell’acquisto.
Esattamente. Il tema è riuscire a collegare l’intenzione con il comportamento. Per fare ciò, l’informazione gioca un ruolo importantissimo. C’è bisogno di concepire in modo adeguato l’informazione che dai produttori va ai consumatori, ma al tempo stesso di ripensare la compartecipazione dei consumatori nei processi di miglioramento dei prodotti. Tecnologie semplicissime come il Qr code possono svolgere una funzione molto importante dal punto di vista informativo nei confronti dei cittadini-consumatori. Però è altrettanto vero che se vogliamo creare dei prosumer, cioè dei consumatori che siano anche coproduttori, questo richiede delle attività più mirate.
In alcuni campi sta già accadendo.
Pensiamo alla produzione da rinnovabili: chi installa un pannello fotovoltaico sta producendo energia, ma può mettere in rete l’energia che non usa. E’ quindi al tempo stesso produttore e consumatore. Nelle produzioni ad alta tecnologia si usa già una logica del genere: pensate allo sviluppo continuo dei prodotti software, in cui i consumatori diventano parte attiva dello sviluppo stesso. Ecco, la logica su cui dobbiamo muoverci è quella di favorire le soluzioni ma soprattutto le capacità di creare la stessa connessione tra produzione e consumo che è cruciale nella prospettiva della sostenibilità.
Come state lavorando in questo senso nel WP 1.1 in questo senso?
In primis, come dicevamo in precedenza, leggeremo sistematicamente le evoluzioni dal lato del consumo, per poi sperimentare sul campo le soluzioni che favoriscono una logica di prosuming in maniera più rilevante. Dall’altra parte, penseremo anche a meccanismi che possano consentire alle imprese di cambiare il loro business model in questa prospettiva, ingaggiando i consumatori in modo più efficace: pensiamo al crowdsourcing e al crowdfunding come pratiche in grado di mettere insieme meccanismi in cui i consumatori diventano parte attiva dei processi di acquisto.
Quindi l’intenzione delle aziende dovrebbe essere quella di costruire una sorta di laboratorio con diverse modalità di acquisizione e gestione delle informazioni che poi aiutino anche tutti coloro che vogliono cimentarsi con questa trasformazione a ottenere anche informazioni e servizi. In questo senso AMELIA, la piattaforma che nascerà da Grins, può giocare un ruolo.
Voltiamo pagina. Si fa sempre più strada quella che potremmo definire “servitizzazione”: non si possiede un prodotto, lo si utilizza per il tempo necessario. Un’idea affascinante, considerato, per esempio, quante macchine restano parcheggiate per la gran parte del tempo.
Prima parlavamo di modelli di business: un modello che si sta evolvendo in maniera significativa è proprio quello del product as a service. Non è una logica nuovissima: parlando di industria automobilistica, già da un ventennio con il leasing strutturato si è cercato di mettere in campo delle modalità per fornire un servizio mantenendo la proprietà del prodotto.
Su questo si sono innestate soluzioni interessanti che riguardano tantissimi settori: questo peraltro è perfettamente coerente con le intenzioni del legislatore - che vuole responsabilizzare il produttore lungo tutto il ciclo di vita del prodotto e anche a fine vita. Diventa evidente che se il produttore di impianti elettrici mantiene la proprietà delle infrastrutture e vende solo il servizio di illuminazione ha tutto l’interesse a far durare più a lungo il prodotto: così si scioglie il nodo dell’obsolescenza programmata, ma anche quello della gestione ottimale del prodotto stesso, con la manutenzione dell’impianto che ha il senso di allungarne la vita, garantendo infine la massima riciclabilità.
Questo peraltro in un contesto, come quello in cui ci troviamo, in cui la pressione derivata dalla scarsità di materie prime che aumenta assieme a popolazione e consumi individuali comporterà il fatto che i materiali diventeranno una componente assolutamente chiave, dal valore crescente e significativo.
E quindi, la logica del product as a service potrebbe diventare addirittura material as a service: chi detiene la proprietà dei materiali ed è in grado di mantenerli all’interno del ciclo economico finisce per dotarsi di un asset assolutamente cruciale. Una prospettiva sicuramente interessante. Ma siamo ancora lontani: oggi si ricicla solo il 10% di quanto si consuma.
I materiali diventeranno una componente assolutamente chiave, dal valore crescente e significativo. E quindi, la logica del product as a service potrebbe diventare addirittura material as a service
La perdita e lo spreco di cibo rappresentano due grandi sfide per la resistenza e la resilienza del sistema alimentare, la cui attuale frammentazione sta generando insicurezza alimentare per due miliardi di persone a livello globale. Si stima che circa un terzo di tutto il cibo prodotto a livello globale rimanga invenduto, perso o sprecato in qualche punto lungo la catena di approvvigionamento che va dalla produzione alle nostre tavole. Come si muove la ricerca del vostro spoke sui temi delle circolarità dei sistemi alimentari? E come può, secondo lei, la piattaforma AMELIA essere di supporto concreto alla comprensione degli scenari e alla formulazione di soluzioni efficaci?
Ci sono almeno due punti di attenzione all’interno della nostra attività di ricerca sul tema dello spreco alimentare. La prima è connessa all’analisi delle filiere agroalimentari che andremo a fare: lo spreco non è solo nel consumo, ma anche nelle fasi di produzione, logistica, distribuzione. Metteremo a disposizione informazioni che possono supportare analisi e decisioni in questo campo.
A questo punto ci concentreremo sui consumi. Una volta organizzate e sistematizzate le informazioni disponibili, coglieremo tutte le occasioni per fare disseminazione e ingaggio delle imprese, che resta uno dei nostri obiettivi primari. Al tempo stesso, proveremo a coinvolgere gli altri decision maker che vogliamo raggiungere, a partire dalle istituzioni, con policy brief e idee sulle azioni da mettere in campo nello spirito della sostenibilità, della circolarità e della resilienza.
Chiudiamo tornando a volare alto. Alla luce delle considerazioni di cui sopra, come possiamo definire la parola “sviluppo” negli anni Venti del secondo millennio?
Associo sicuramente la parola “sostenibile” alla parola “sviluppo”. Oggi il concetto di sostenibilità non è più solo un modo tra gli altri per poter interpretare quali sono le necessità di trasformazione del modello di sviluppo economico e sociale, ma in realtà è l’unica delle soluzioni possibili. Sviluppo sostenibile vuol dire tenere insieme in una progettualità che sia davvero integrata la dimensione economica, sociale e ambientale. E quindi, in questa prospettiva, siamo chiamati a trasformare complessivamente il nostro modo di produrre, di consumare, di gestire i beni comuni.
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