Pubblicato il: 26-2-2025
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Nei mercati occidentali, destinazione principale di questi capi a basso costo, cresce l’attenzione verso scelte di acquisto più sostenibili. Diversi brand promuovono collezioni "green" con materiali riciclati o cotone biologico, fanno leva su economia circolare e programmi di riciclo, investono in strategie per ridurre l’impronta di carbonio e utilizzare energia rinnovabile. Tuttavia, resta aperto il dibattito sulla reale efficacia di queste iniziative.
Tra la produzione e gli scaffali dei grandi marchi ci siamo noi, consumatori sempre più consapevoli, certo, ma ancora guidati da prezzo, comodità e tendenze stagionali. La crescente domanda di capi etichettati come “sostenibili” non basta a trasformare il sistema: il rischio è che la moda green rimanga più una narrazione di marketing che un reale cambiamento.
Ma tra promesse del marketing e responsabilità del consumatore, cosa possono fare le politiche per incoraggiare scelte green? Per rispondere, si parte dalla comprensione delle dinamiche che influenzano i comportamenti pro-ambientali, per poi individuare strategie in grado di ridurre questo divario e incentivare un ruolo più attivo dei consumatori nella transizione verso un sistema economico più sostenibile.
Secondo i dati Eurobarometro (2024), quasi sei cittadini europei su dieci dichiarano di essere disposti a pagare di più per prodotti più facili da riparare, riciclabili o realizzati con un minore impatto ambientale. La letteratura scientifica conferma questa tendenza, evidenziando una domanda crescente di beni a ridotto impatto ecologico. Tuttavia, i modelli predittivi finora utilizzati rivelano una discrepanza tra le intenzioni dichiarate e i comportamenti d’acquisto effettivi (Testa et al., 2021).
Fa chiarezza su queste tematiche il recente studio condotto dall'Istituto di Management della Scuola Superiore Sant’Anna, coordinato dal Prof. Francesco Testa e realizzato con la partecipazione del Prof. Marco Frey e dei ricercatori Roberta Iovino, Vinicio Di Iorio e Micol Batelli, analizza le attitudini e le motivazioni che guidano i comportamenti dei consumatori in relazione all’acquisto, all’utilizzo e al fine vita dei capi d’abbigliamento.
Attraverso una survey, composta da un questionario e un esperimento, lo studio indaga la complessità delle scelte di consumo, individuando i fattori che incentivano o ostacolano comportamenti più sostenibili lungo l’intero ciclo di vita dei prodotti tessili.
Il campione, rappresentativo della popolazione italiana, è composto da 2.039 rispondenti tra i 18 e i 70 anni. La raccolta dati è stata condotta online da SWG nell’ottobre 2024.
Questa ricerca rappresenta il secondo capitolo di un’indagine più ampia: a febbraio 2024, un primo studio si è concentrato sul settore degli smartphone, mentre la prossima analisi sarà dedicata al comparto alimentare.
L’abbigliamento viene percepito come facilmente sostituibile”, spiegano i ricercatori, “anche a causa dei bassi costi del fast fashion.
Dall’indagine del Sant’Anna emerge che la frequenza di acquisto dei capi di abbigliamento è particolarmente elevata, soprattutto per gli articoli meno costosi e facilmente accessibili, come maglie, top e camicie. Più del 30% dei consumatori dichiara di acquistarne tra 3 e 5 all’anno, mentre un ulteriore 25% supera questa soglia, arrivando fino a 7 o più articoli in 12 mesi.
Al contrario, capi più strutturati come giacche e cappotti vengono acquistati meno frequentemente: oltre il 50% dei consumatori ne compra uno ogni due anni o meno. Pantaloni, abiti e scarpe si collocano in una fascia intermedia. In media, ogni consumatore acquista 2-3 nuovi capi all’anno, ovvero uno ogni cinque mesi circa.
Sono dati che confermano una propensione al rinnovo costante del guardaroba, guidata soprattutto dall’acquisto di capi meno strutturati e più economici. Questo ritmo di consumo è molto più rapido rispetto ai prodotti tecnologici come gli smartphone (oggetto della precedente indagine), che vengono sostituiti mediamente ogni 4 anni o più.
Nel settore dell’abbigliamento, il consumo accelerato è favorito da saldi e promozioni (motivazioni economiche) e da necessità pratiche come la sostituzione di capi danneggiati o l’adattamento a stagioni ed eventi specifici (motivazioni utilitaristiche). Mentre per gli smartphone dominano motivazioni più tecniche – come il miglioramento delle prestazioni (batteria e memoria) o l’accesso a funzionalità avanzate – a spingere l’acquisto di nuovi capi è soprattutto la facilità di sostituzione.
La non riparabilità emerge come una delle principali cause di sostituzione in entrambi i settori. Tuttavia, nel caso dell’abbigliamento, i costi di switching più bassi riducono la barriera al cambio, rendendo meno probabile la riparazione di capi danneggiati o usurati e incentivando un consumo più frequente e meno sostenibile.
Le motivazioni legate al consumo ostentativo (avere un prodotto migliore di quello degli altri) risultano marginali in entrambe le categorie merceologiche. Anche il desiderio di supportare brand etici o produttori locali incide ancora poco sulle scelte d’acquisto, sollevando interrogativi su quali strategie possano davvero incentivare un consumo più responsabile.
Nonostante la stragrande maggioranza dei consumatori si dichiari preoccupata per l’ambiente e consapevole dell’impatto del settore moda, nei comportamenti d’acquisto questa consapevolezza non si traduce automaticamente in scelte più sostenibili.
Le preoccupazioni ambientali e la personale scala di valori non riescono quindi a spiegare, da sole, perché si scelga un capo con determinate caratteristiche”, commentano gli studiosi della Scuola Superiore Sant’Anna.
Le priorità che guidano gli acquisti di abbigliamento sono principalmente funzionali ed economiche. Nel caso di un cappotto, ad esempio, il prezzo è il primo fattore considerato (74%), seguito dalla comodità e vestibilità (69%) e dalla qualità e durabilità (64%), a conferma di un’attenzione prevalente all’esperienza d’uso più che alla sostenibilità. Gli aspetti ambientali – come materiali, processi produttivi e possibilità di riparazione – influenzano una quota limitata di consumatori (15-30%), mentre il noleggio e l’acquisto di capi usati si rivelano ancora meno rilevanti (10%). Tuttavia, per capi più semplici e meno strutturati, che richiedono un investimento economico minore, la sensibilità verso gli aspetti di sostenibilità risulta più alta, come dimostrato da un’indagine condotta nel 2022 su 5.000 consumatori in cinque paesi europei nell’ambito del progetto Trick.
Oltre all’aspetto economico, il confronto con altri settori mostra differenze significative. Nell’elettronica di consumo, ad esempio, il prezzo resta il criterio principale (79%), ma a guidare la scelta sono anche le prestazioni tecniche (66%) e il brand (50%), con gli attributi “green” ancora meno influenti rispetto all’abbigliamento. Questo evidenzia come, per incentivare un consumo più responsabile, non basti fare leva sulla consapevolezza ambientale: è necessario intervenire su convenienza, accessibilità e percezione di valore per ridurre il divario tra intenzioni e comportamenti effettivi.
Per l’abbigliamento, la ricerca di informazioni avviene soprattutto nei negozi fisici e, in misura minore, sui siti di acquisto online, privilegiando un’esperienza immediata. Per gli smartphone, invece, domina un approccio più analitico basato su recensioni online. In entrambi i casi, i social network hanno un ruolo marginale.
Nei canali di vendita, i grandi punti vendita multimarca restano centrali per l’abbigliamento, mentre l’e-commerce è sempre più rilevante per gli smartphone. La vendita di prodotti usati, in particolare tramite piattaforme online, è più diffusa per gli smartphone grazie al successo dei modelli ricondizionati.
Gli acquisti d’abbigliamento “green” più frequenti includono capi in fibre naturali (60%) e capi di alta qualità/duraturi (50%). Queste scelte evidenziano un intreccio tra sostenibilità e vantaggi funzionali come il comfort, la resistenza e l’investimento a lungo termine. I comportamenti in cui il capo è considerato come un Product-as-a-Service registrano un’adozione decisamente molto bassa: solo l’8% dei consumatori ricorre al noleggio, l’11% allo “swapping” (scambio) e il 13% all’acquisto second-hand.
Da un confronto con il 2022, questi comportamenti, insieme a quelli maggiormente consolidati, sembrano aver perso parecchio terreno. Questo evidenzia non solo resistenze culturali ma anche un mercato che fatica a maturare verso un consumo realmente circolare. Anche nel settore degli smartphone c’è una scarsa diffusione di queste modalità. Confrontando i due settori, quello dell’abbigliamento mostra comunque una maggiore adozione di comportamenti di acquisto “green”.
Una quota significativa di consumatori riconosce i benefici ambientali associati alla scelta di capi “green”: il 40-45% percepisce che i capi realizzati con materiali riciclati abbiano un valore ambientale, il 30-40% lo percepisce per i capi di seconda mano e il 20-30% per gli abiti noleggiati. Tuttavia, oltre agli aspetti ambientali, vengono apprezzati anche i benefici economici e pratici di queste soluzioni. Ad esempio, i capi noleggiati offrono la possibilità di avere abiti sempre adatti ad occasioni speciali e indossare abiti esclusivi a prezzi accessibili, senza doverli acquistare e risparmiando spazio nell’armadio. Per quanto riguarda i capi di seconda mano, la possibilità di acquistare abiti di lusso a un costo inferiore è in grado di unire vantaggi economici e ambientali. La Figura 2 illustra il valore percepito dei capi di seconda mano.
Tuttavia, accanto a questi benefici, emergono anche timori che ostacolano una più ampia diffusione di tali modalità di consumo. Per i capi riciclati, il costo elevato è la principale preoccupazione (40%). Nel caso del second-hand, il rischio di scarsa qualità è maggiore (40-50%) (Figura 3). Per il noleggio, i principali rischi percepiti sono legati a igiene, difetti estetici e costi, ciascuno riportato da circa il 45% dei consumatori. Questi timori mettono in luce resistenze culturali verso un modello di consumo che privilegia l’utilizzo condiviso rispetto al possesso, una transizione che richiede un cambiamento significativo nelle abitudini e nelle percezioni dei consumatori. L’idea di non possedere un capo ma di utilizzarlo solo temporaneamente, ad esempio, appare ancora distante per molti, riflettendo barriere psicologiche e pratiche che limitano l’adozione su larga scala di queste modalità.
Operando un confronto con la precedente indagine, la percezione del valore ambientale è più alta per gli smartphone ricondizionati: il 50% dei consumatori li considera meno dannosi per l’ambiente. Questo è probabilmente dovuto alla percezione del maggiore impatto ambientale derivante dagli smartphone. Pertanto, l’acquisto “green” dei capi d'abbigliamento assume minore rilevanza. Anche il rischio percepito, però, è più alto per gli smartphone ricondizionati, con il 60% dei consumatori che teme difetti estetici e problemi legati alle performance tecniche (ad es., la durata della batteria).
Dopo aver approfondito motivazioni, attributi prioritari, comportamenti di acquisto, barriere e driver, è essenziale analizzare le altre fasi del ciclo di vita dei capi d’abbigliamento. È proprio nell’uso e nel fine vita che si celano ulteriori opportunità – e sfide – per ridurre l’impatto ambientale del settore.
Oltre la metà degli italiani dichiara di adottare pratiche virtuose nella fase d’uso, come lavare i capi a basse temperature (55%) e prestare attenzione alle etichette di lavaggio (65%). Questi comportamenti, sebbene riflettano una maggiore consapevolezza ambientale, sono anche legati a fattori quali il desiderio di risparmiare sui consumi o di preservare i capi più a lungo. Approfondendo il tema post-lavaggio, emerge che il 75% evita l’asciugatrice – verosimilmente per mancanza di disponibilità – e il 40% rinuncia a stirare i capi, segnando un cambiamento verso una gestione più essenziale.
Al contrario, le pratiche che richiedono uno sforzo maggiore, come la riparazione dei capi (30%) o il riutilizzo creativo (13%), sono adottate da una minoranza e mostrano un calo significativo rispetto al 2022 (-10% e -20%, rispettivamente), suggerendo la necessità di rendere queste opzioni più accessibili e attraenti per il consumatore medio.
La gestione dei capi a fine vita continua a rappresentare una sfida significativa. I comportamenti “green” hanno registrato un calo preoccupante rispetto al 2022: il conferimento dei capi nei centri di raccolta è sceso dal 50% al 30%, le donazioni dal 50% al 36%, il riutilizzo creativo dal 32% al 13%, e le vendite a negozi dell'usato dal 26% al 16%. Sebbene lo smaltimento dei capi nell’indifferenziata sia diminuito dal 19% al 14%, segnando un lieve miglioramento, questa pratica resta ancora troppo diffusa.
In definitiva, sottolineano i ricercatori, “esiste un divario tra la sensibilità ambientale e le azioni concrete messe in pratica”. Avere a cuore l’ecologia non basta: perché si continua ad acquistare fast fashion e a sprecare risorse, anche tra coloro che si dichiarano attenti alla sostenibilità? È necessario approfondire la questione.
Comprendere le dinamiche che influenzano i comportamenti verso opzioni più sostenibili non è semplice. “Il consumo responsabile è più articolato di quanto si pensi, poiché coinvolge valori, necessità, aspettative e norme sociali, spesso in contraddizione tra loro” spiegano gli studiosi. Più fattori entrano in gioco, più la decisione diventa complessa. “Inoltre, le risorse disponibili – economiche, di tempo e di conoscenza – possono non essere sufficienti.”
“I consumatori perseguono diversi obiettivi quando effettuano una scelta d’acquisto, e la sostenibilità ambientale è solo uno di questi. Bilanciare eventuali contrasti, come quello tra il costo del prodotto e il suo impatto ecologico, richiede capacità che non sono affatto scontate”, concludono i ricercatori della Scuola Sant’Anna.
Il prezzo è un aspetto che suscita spesso tensioni, scontrandosi frequentemente con il desiderio di fare scelte “green” e responsabili. Più del 40% dei consumatori percepisce un conflitto tra questi due aspetti durante l’acquisto sia di capi d’abbigliamento che di smartphone. Questo dato riflette l’idea diffusa secondo cui le opzioni rispettose dell’ambiente sono spesso associate a costi più elevati.
La sostenibilità entra in conflitto anche con altre priorità funzionali o estetiche: nel caso dei capi d’abbigliamento, con la moda e l’e-commerce (per più del 30%), mentre nel caso degli smartphone, con il design e le performance tecniche (per circa il 40%).
Dover bilanciare queste esigenze rende il processo decisionale complesso e spesso frustrante.
Gli studiosi della Scuola Sant’Anna fanno riferimento al concetto di paradox mindset, già ampiamente discusso nella letteratura aziendale. “Questa espressione descrive l’approccio di chi è in grado di gestire e armonizzare aspetti che sembrano in contrasto tra loro: ad esempio, un manager capace di prendere decisioni tenendo conto sia della redditività aziendale che del benessere dei dipendenti. Chi possiede questa particolare predisposizione mentale riesce a muoversi con maggiore agilità nella complessità, mentre chi ne è privo tende a semplificare riducendo il numero di opzioni considerate.”
Il paradox mindset richiama la figura di Giano, l’antica divinità romana raffigurata con due volti, uno rivolto al passato e l’altro al futuro, simbolo della capacità di abbracciare prospettive opposte. Un esempio più vicino ai giorni nostri proviene dal mondo della tecnologia e da Steve Jobs, l’inventore dello smartphone. È noto che l’imprenditore californiano indossasse sempre dolcevita neri, trasformandoli in un’icona di stile. Lo faceva – raccontava – per semplificare la routine mattutina, eliminando la necessità di scegliere cosa mettere. Così riusciva a conciliare due esigenze apparentemente in conflitto: esprimere uno stile personale e ridurre al minimo il tempo dedicato alla scelta dell’abbigliamento.
Ma il consumatore riesce a soddisfare e conciliare tutti i suoi bisogni mentre prende decisioni d’acquisto e utilizza i prodotti acquistati?
“I risultati rivelano un basso paradox mindset, cioè una limitata capacità di gestire le tensioni tra priorità contrastanti. Solo il 36% dei consumatori mostra questa capacità quando acquista capi d’abbigliamento. Percentuale che sale al 45% se si tratta di acquistare uno smartphone. È possibile che, vista la natura dell’acquisto, per l’abbigliamento sia un processo impulsivo e meno razionale. Pertanto, le tensioni vengono affrontate con meno consapevolezza e metodo”.
In generale, sebbene i consumatori tentino di gestire le tensioni nella fase di acquisto, tale processo è spesso percepito come impegnativo o neutrale, piuttosto che coinvolgente o appagante. È quindi essenziale promuovere strumenti che facilitino scelte più informate, aiutando i consumatori a vedere le opzioni “green” non come un compromesso, ma come un valore aggiunto.
“Immagina di dover comprare un paio di jeans. Nel negozio da te prescelto individui due modelli (A e B) che hanno caratteristiche similari e per te adeguate come: taglia, colore, modello, qualità, reputazione del brand. Le differenze che leggi sul cartellino consistono nell’impatto sull’ambiente (basso/elevato) e nel prezzo (basso/elevato). L’impatto ambientale è calcolato considerando le scelte dell’azienda di impiegare materiali riciclati, durevoli, energia da fonti rinnovabili, etc.”
Così, attraverso un esperimento i ricercatori hanno misurato le scelte dei consumatori tra un modello più sostenibile (basso impatto sull’ambiente) e più costoso, e un modello meno sostenibile ma più economico. Il 24% del campione ha scelto il modello più sostenibile. Il 40% ha optato per l’economicità. Il restante 36% ha selezionato “la scelta mi crea indecisione e continuerei a cercare” (Figura 4).
Chi sceglie di continuare a cercare appare tirato da due forze opposte: interesse e, al contempo, dubbio legato ai jeans a basso impatto ambientale – percependone sia il valore che i rischi. Ciò li spinge a rimandare la decisione, cercando ulteriormente. Per questi consumatori, sarebbe efficace intervenire riducendo il rischio percepito, sottolineando la qualità e i benefici dei capi riciclati.
Successivamente, è stata introdotta un’altra opzione d’acquisto, scelta dal 40% del campione: un modello di jeans second-hand a un prezzo intermedio e con un basso impatto sull’ambiente (Figura 5).
Chi ha scelto il modello a ridotto impatto ambientale?
Chi opta per i jeans a basso impatto ambientale percepisce un valore elevato verso i capi “green” prodotti con fibre riciclate. Le scelte non sono guidata da fattori psicologici come percezione di tensioni o mindset paradossale.
È probabile che questi consumatori modifichino la propria preferenza perché predisposti ad associare alto valore anche ai capi usati. I jeans second-hand potrebbero diventare un’alternativa valida capace di sostituire il capo nuovo e a ridotto impatto sull’ambiente.
Chi ha scelto il modello a economico?
Anche in questo caso, i consumatori che scelgono i jeans economici non avvertono tensioni e non hanno una mentalità paradossale, la decisione è legata a fattori più tangibili come il prezzo e il rischio associato ai capi second-hand o a ridotto impatto sull’ambiente.
Per questo segmento, il modello a basso impatto ambientale ha un potenziale maggiore rispetto al second-hand per spostare le scelte verso opzioni più sostenibili.
Chi ha scelto il modello second-hand?
I jeans second-hand catturano in particolar modo chi, in prima battuta, era indeciso e ha continuato a cercare. Avendo uno spiccato mindset paradossale, questi consumatori non vedono il modello usato come una rinuncia bensì come una scelta ibrida capace di integrare due valori opposti (risparmio e sostenibilità). Questi consumatori percepiscono delle barriere che riducono la probabilità di scegliere il modello second-hand. Tuttavia, attraverso il mindset paradossale riescono a superare i timori: l’effetto del valore percepito associato all’usato è più forte.
I jeans second-hand funzionano anche come un’opzione «compromesso» che, in parte, ridistribuisce le preferenze: il 51% e il 28% dei consumatori che avevano scelto, rispettivamente il modello a basso impatto ambientale e quello economico, cambia idea (Figura 6). Chi vira successivamente verso il second-hand mostra un processo decisionale complesso.
Chi nella prima scelta ha optato per i jeans a basso impatto ambientale attribuisce un alto valore ai capi riciclati senza percepirne i rischi. Chi è inizialmente orientato verso i jeans economici attribuisce massimo beneficio al prezzo.
Quando viene introdotta la terza opzione, il second-hand rappresenta una scelta ibrida, che offre sia sostenibilità che economicità, in grado di spostare le preferenze. Per questi consumatori, il valore percepito dei jeans second-hand emerge come fattore dominante. Il modello second-hand è posizionato in modo strategico per evidenziare sia la sostenibilità che l’accessibilità economica, influenzando le scelte attraverso un effetto decoy.
I dati emersi dallo studio evidenziano che, sebbene la consapevolezza dell’impatto ambientale dell’industria tessile sia elevata, c’è ancora un divario significativo tra le intenzioni e i comportamenti effettivi dei consumatori. Ridurre questo gap richiede un’azione coordinata su più fronti.
Un dato particolarmente critico riguarda il fine vita dei capi: molti consumatori conservano vestiti inutilizzati, togliendoli dal ciclo economico, anziché reintrodurli attraverso riparazione, up-cycling, second-hand o riciclo. Occorre inoltre ridurre la percezione dei rischi legati a questi modelli di consumo, cambiando la mentalità con azioni mirate. Esperienze pratiche, come la possibilità di provare gratuitamente noleggio, second-hand e riciclo creativo, possono ridurre le resistenze iniziali e favorire una maggiore accettazione di queste opzioni.
Inoltre, è importante superare le tensioni, dimostrando che risparmio, qualità e sostenibilità possono coesistere. Per promuovere un mindset paradossale – ovvero la capacità di sentirsi a proprio agio nel bilanciare attributi apparentemente opposti – l’educazione gioca un ruolo cruciale.
Offrire strumenti che aiutino i consumatori a vedere le scelte non come dilemmi “aut-aut” ma come opportunità per integrare benefici personali e ambientali è essenziale. È altrettanto importante normalizzare le tensioni percepite, spiegando che queste fanno parte del processo decisionale e che possono essere affrontate con successo attraverso la creatività. Raccontare storie di consumatori che hanno adottato soluzioni ibride senza compromessi, può ispirare nuove abitudini.
Con politiche adeguate e un cambiamento culturale, l’industria tessile può diventare un modello virtuoso di economia circolare. Come auspica la Commissione Europea, entro il 2030, il fast fashion potrebbe essere sostituito da un sistema più equo e sostenibile, capace di garantire un futuro migliore per il pianeta e le generazioni future.
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