Ma se l’aspetto scientifico è ben chiaro, il dibattito si sposta su che tipo di politiche occorrano e sulle loro implicazioni. Non si deve quindi solo tenere conto dell’obiettivo principale, riduzione delle emissioni e transizione verso un’economia verde, ma anche dei potenziali impatti dal punto di vista sociale e politico.
Proprio su questi temi si concentra il lavoro del Work Package 6.1 dello Spoke 6, che nel corso degli ultimi mesi ha pubblicato due policy brief che fanno il punto sulle ricerche svolte finora.
Il primo policy brief prodotto include tre diversi contributi sull'economia dell'energia e le sfide della decarbonizzazione, realizzati con il contributo congiunto dell'Università Ca' Foscari Venezia, della Fondazione Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, del Politecnico di Milano, dell'Università degli Studi di Padova, dell’Università degli Studi di Torino e di Intesa Sanpaolo Innovation Center S.p.A.
Il lavoro si concentra anzitutto sugli impatti che la crisi climatica sta avendo sulla domanda e l’offerta nel mercato energetico e in quelli correlati. Sul lato domanda, il lavoro di ricercatrici e ricercatori si sofferma su una delle limitazioni della letteratura empirica nel campo. Dal punto di vista metodologico, infatti, questa ricerca è riuscita a separare gli effetti degli shock meteorologici dalle variazioni climatiche a livello locale per studiare il consumo di elettricità ed energia.
È infatti opportuno chiarire queste due componenti. Da una parte la crisi climatica sta avendo già oggi degli effetti dal punto di vista meteorologico sul breve periodo, portando a un aumento dei fenomeni climatici estremi, come l’aumento di temperatura a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Dall’altra gli impatti della crisi climatica si estenderanno sul lungo periodo. Per questo è necessario discernere le anomalie climatiche che si registrano nel corso dell’anno, come il caso delle alluvioni a cui abbiamo assistito nel 2023, dal trend più profondo e duraturo che sta portando a cambiamenti sostanziali.
Grazie a questo contributo, si è identificato l’impatto causale dell’adattamento sia sul breve sia sul lungo periodo. I risultati mostrano che i consumatori tendono ad adattarsi alle condizioni climatiche medie adottando nuove tecnologie e riparando gli elettrodomestici per migliorarne l'efficienza energetica. Questo porta a un aumento della domanda di energia sul lungo periodo per tecnologie di raffreddamento e riscaldamento, a differenza dei precedenti modelli proprio per la distinzione tra impatto climatico e impatto meteorologico. A giocare un ruolo in questo fenomeno c’è anche il reddito pro capite, che svolge il ruolo di amplificazione sotto questo aspetto. La domanda di energia elettrica sarà infatti sensibilmente maggiore per le fasce di popolazione con reddito più elevato.
Inoltre, il gruppo di lavoro del WP 6.1, sempre grazie alla metodologia usata, è stato in grado di fare previsioni sul lungo periodo riguardo la domanda e l’offerta di energia. Come suggeriscono i risultati dell’analisi, la crisi climatica porterà a un aumento della domanda di energia intorno alla metà del secolo, a causa delle strategie di adattamento sul lungo periodo. Inoltre, la crisi climatica porterà a esacerbare il consumo di energia in paesi tropicali come l’India, a causa di imprevedibili aumenti di temperatura.
Non è solo la domanda a essere influenzata dalla crisi climatica, ma anche l’offerta. In particolare, le anomalie climatiche possono portare a guasti o altri malfunzionamenti nei sistemi energetici dei paesi. La ricerca sottolinea come, l’aumento di domanda energetica, quando non può essere soddisfatta da fonti rinnovabili, deve fare leva sull'uso di tecnologie di generazione flessibili, tipicamente a gas e carbone, con importanti implicazioni sulle emissioni di gas serra (GHG) e inquinanti atmosferici locali. Tuttavia, sempre l’analisi suggerisce come, durante condizioni meteorologiche estreme, la generazione di energia da carbone, gas e idroelettrica può aumentare il rischio di interruzioni impreviste dell'energia.
In conclusione, gli autori del policy brief sottolineano la necessità di nuove analisi dell'influenza degli shock sul lato dell'offerta, in particolare riguardo alla pianificazione.
Il primo policy brief affronta anche una questione di fondamentale importanza nello studio delle politiche di mitigazione della crisi climatica: la relazione tra la produzione di energia da fonti rinnovabili e il calo di emissioni di gas serra.
La letteratura si è concentrata con particolare attenzione su un indicatore, il Coefficiente di Emissione Medio (AEF): questa misura calcola il rapporto tra emissioni da parte di un sistema elettrico e la produzione di energia che genera. Tuttavia, rilevano autrici e autori dello studio, questo indicatore non tiene conto dell’energy mix e la dinamica del merit order, un ordinamento delle fonti di energia in base al prezzo.
Per questo motivo, la ricerca sottolinea che un indicatore più accurato per la sensitività della dinamica delle emissioni rispetto a cambiamenti nella richiesta sarebbe il Coefficiente di Emissione Marginal (MEF), che calcola invece la quantità di emissioni di gas serra emessi per variazioni unitarie di attività economica e energetica. Questo indicatore è di particolare importanza per l’Italia dove il mercato dell’elettricità è diviso in sei zone distinte. Un indicatore come l’AEF rischia quindi di non tener conto dell’eterogeneità del nostro mercato elettrico.
Una corretta stima del MEF svolge un ruolo fondamentale nel promuovere lo sviluppo e l'adozione di fonti di energia rinnovabile. Infatti, grazie a queste stime, i policy maker possono offrire incentivi finanziari, sussidi e crediti d'imposta per sostenere tecnologie a basse emissioni di carbonio come l'energia eolica, solare e idroelettrica in maniera più granulare ed efficace. Inoltre la loro stima può guidare gli sforzi per decarbonizzare la rete elettrica: i policy maker possono fissare obiettivi per ridurre l'intensità di carbonio della generazione di elettricità nel tempo e implementare politiche per ritirare le centrali a carbone, aumentare la quota di rinnovabili e migliorare l'efficienza della rete. Proprio sulle reti è di fondamentale importanza un tale indicatore, in quanto garantisce una maggior comprensione di come intervenire sui sistemi di distribuzione dell’energia, facilitando una maggior incidenza di energia pulita in zone e regioni con fonti di elettricità ad alta emissione. Infine, le informazioni sull'intensità di carbonio della generazione di elettricità possono consentire ai consumatori di fare scelte più sostenibili e influenzare il loro comportamento di consumo energetico anche su base locale.
Si tratta quindi di un lavoro che mette in luce come le analisi svolte sulle emissioni e sulla produzione di energia rischiano di risultare poco efficaci se aggregate in un unicum che non tiene conto della frammentazione del network. Occorre avere a disposizione i giusti dataset e un corretto framework teorico, in grado di ottenere delle stime affidabili con cui orientare le politiche.
Inoltre, la valutazione marginale delle emissioni avrà ancora più rilevanza nell'ipotesi di sviluppo di mercati locali dell'energia, in linea con il percorso di decentralizzazione proposto dall'Unione Europea.
Il secondo tema affrontato dal policy brief è la decarbonizzazione, un processo niente affatto uniforme tra i vari settori. È infatti di particolare importanza concentrarsi sui cosiddetti settori “hard to abate”, cioè quelli in cui il processo di decarbonizzazione è più ostico. Non c’è soltanto un aspetto di tipo climatico: come fanno notare i ricercatori del Fondo Monetario Internazionale (IMF), questi settori presentano un’elevata incidenza di lavoratori le cui opportunità al di fuori di quel settore sono limitate, rischiando così un aumento della disoccupazione.
Focalizzandosi in particolare sulle emissioni dirette, la ricerca ha individuato tre approcci per la decarbonizzazione delle industrie pesanti. Innanzitutto, è necessario affrontare modifiche significative nel processo di produzione, nei materiali utilizzati, nelle specifiche del prodotto e nelle attrezzature di produzione che possono influenzare la qualità, la sicurezza o le prestazioni del prodotto finale. Vengono poi i processi di innovazione, strettamente collegati al primo aspetto, e infine la gestione delle emissioni, che consiste nel monitoraggio, controllo e riduzione delle emissioni da parte del settore o dell’industria specifica.
Sono stati presi in considerazione poi vari settori paradigmatici, a partire da quello Oil & Gas, cioè quello dell’industria petrolifera e del gas naturale. L’impatto di questo settore sulle emissioni globali è stimato intorno al 15 per cento. In questo settore, ad esempio, le modifiche sostanziali includono l’integrazione di energie rinnovabili, il processo di innovazione nell’utilizzo della cogenerazione, mentre per quel che riguarda la gestione delle emissioni è di fondamentale importanza l’efficientamento. Le riparazioni degli impianti di produzione hanno inoltre il potenziale di ridurre considerevolmente le emissioni. Negli anni il settore ha fissato dei target importanti per la riduzione delle emissioni. Tra le tecnologie che possono supportare tale riduzione vale la pena citare l’implementazione della Cattura e Riutilizzo dell’Anidride Carbonica (CCUS), utilizzata anche durante la produzione di idrogeno, in particolare quello della tipologia blu. In parallelo si sta lavorando anche sull’idrogeno viola che deriva invece dall’energia nucleare e soprattutto sull’idrogeno verde, prodotto attraverso energia rinnovabile , che è tra le tipologie con minor impatto ambientale. A oggi l’idrogeno verde gioca un ruolo marginale nella domanda di energia a livello mondiale, ma ha il potenziale per arrivare fino a quasi un quarto grazie a maggiori finanziamenti.
Altri due casi di fondamentale importanza sono quelli nell’industria del cemento e in quella dell’acciaio. Nel primo caso, a partire dagli anni ‘90, si è assistito a una drastica riduzione delle emissioni di CO2 per tonnellata, nonostante il settore pesi ancora per il 6 per cento sulle emissioni globali. In futuro saranno soprattutto la CCUS e materiali innovativi a giocare un ruolo fondamentale. Al contrario, nel settore dell’acciaio la decarbonizzazione ha ricevuto una quantità limitata di risorse, sebbene l’acciaio continui a contribuire a circa un decimo delle emissioni globali. Il nostro paese, d’altronde, è particolarmente esposto sotto questo fronte: il settore della produzione d’acciaio in Italia conta 70 mila addetti. Non solo: sono ben note all’opinione pubblica le vicende legate all’acciaieria Ilva, una delle industrie più grandi d’Europa per la produzione di acciaio attraverso ciclo integrale. L’acciaieria rappresenta a oggi un problema complesso: da una parte le preoccupazioni ambientali e sanitarie, dall’altra il ruolo sul fronte occupazionale e strategico che l’Ilva svolge per il paese e per il meridione d’Italia. Sotto questo aspetto, vi sono stati negli ultimi anni degli esperimenti, anche nel nostro paese, riguardanti l’aumento del riciclaggio e miglioramenti nell’efficienza energetica come l’impiego di idrogeno verde, che garantirebbe un minor impatto ambientale. Anche l’Europa ha posto l’attenzione sul ruolo dell’idrogeno, ma per farlo serve una strategia coordinata tra pubblico e privato per incentivare l’uso e la ricerca.
Le misure volte a ridurre le emissioni in questi settori porterebbero anche a una maggior indipendenza energetica, un target fondamentale per l’Europa anche a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina. Tuttavia, fanno notare ricercatori e ricercatrici, l’Europa, e in particolare l’Italia, non hanno sviluppato una catena di approvvigionamento adeguata a svariate tecnologie verdi. Sulla scia del discorso dell’ex Presidente del Consiglio Mario Draghi è quanto mai necessaria una strategia cooperativa a livello europeo che passi anche da un maggior impiego della politica industriale.
Veniamo ora al contenuto del policy brief Fit-for-55 and beyond: European power system transition and its social impacts, realizzato dal Politecnico di Milano, la Fondazione Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici e dell'Università degli Studi di Torino.
La ricerca ha qui esaminato due questioni di forte rilevanza anche per il dibattito pubblico: da una parte l’impatto sociale delle politiche verdi europee, dall’altro quello dei deteriorati rapporti economici con la Russia.
Partiamo dal primo aspetto. Per far fronte alla crisi climatica, l’Unione Europea ha approvato il Fit-for-55 (FF55), un piano per ridurre del 55 per cento le emissioni europee al 2030 e per arrivare al 2050 alla neutralità delle emissioni nette di gas serra. Questo piano, articolato su più punti, è stato analizzato a più riprese dalla ricerca accademica. Spesso però queste valutazioni non hanno tenuto conto proprio degli aspetti sociali ed economici correlati. Si tratta anche in questo caso di un tema caldo. Abbiamo visto nel corso degli ultimi anni varie manifestazioni contro le politiche dell’Europa sul clima che, secondo i detrattori, non faranno altro che impoverire le fasce giù più vulnerabili della popolazione.
Per questo motivo le ricercatrici coinvolte hanno indagato, facendo uso di due tipi di modelli, da una parte l’impatto sulle tecnologie del piano FF55, dall’altra le sue conseguenze dal punto di vistasocioeconomico. Le politiche climatiche possono infatti avere effetti avversi, come un aumento delle spese per i cittadini. Queste limitazioni, tuttavia, non rendono vani gli sforzi degli Stati: gioca invece un ruolo fondamentale il design della policy, che può alleviare i possibili effetti sulle disuguaglianze dei provvedimenti adottati. Infatti è importante che l’attuazione delle policy possa prendere in considerazione “l'introduzione di sussidi specifici, il rafforzamento delle reti di sicurezza sociale o la concessione di esenzioni per le popolazioni vulnerabili."
Attraverso il primo modello, hanno costruito uno scenario controfattuale in cui l’andamento del sistema energetico europeo viene influenzato soltanto dall’innovazione tecnologica, senza tener conto del contesto politico comportato dal FF55. L’analisi a livello europeo distingue tra tre gruppi di paesi: paesi dell’Est Europeo, paesi del Nord Ovest, paesi del Sud.
Senza un intervento di policy, la produzione di energia tramite carbone rimarrebbe dominante nei paesi dell’est europa. Proprio grazie al FF55, nello scenario del modello, si assisterebbe a una rapida decarbonizzazione. Nei paesi del Nord Ovest, sia nello scenario senza intervento di policy sia in quello che tiene conto del FF55, l’energia eolica gioca un ruolo importante. Tuttavia, nello scenario con intervento di policy, si assiste a un aumento della richiesta per energia solare con un conseguente impatto sugli investimenti necessari. I paesi dell’Europa meridionale possono invece fare affidamento sull’energia di tipo solare, che nello scenario FF55 richiederebbe una porzione più ampia nel mix energetico, raggiungendo il 75 per cento. Anche in questo caso, come visto prima, ciò comporta un aumento degli investimenti richiesti.
Che impatto avrebbe invece il piano dal punto di vista macroeconomico, in particolare sulle conseguenze redistributive?
Secondo i risultati del secondo modello, l’impatto sul PIL reale sarebbe eterogeneo tra le regioni europee. In particolare, le regioni del Sud dell’Europa assisterebbe in un primo periodo a un aumento di un punto percentuale di PIL, ma dopo il 2030 vi sarebbe invece un trend negativo.
Le ricercatrici hanno poi analizzato in maniera più dettagliata la situazione nel nostro Paese. I risultati evidenziano come a giocare un ruolo determinante sarà l’energia solare. Per abilitare questa transizione è necessaria un’accelerazione sull’installazione di pannelli fotovoltaici al fine di raggiungere i target climatici. Di conseguenza si assisterebbe a un aumento degli investimenti necessari per la transizione nella fascia 2040-2050. I costi derivanti da questi investimenti potrebbero andare a colpire, secondo gli scenari del modello, le fasce meno abbienti della popolazione. È quindi di fondamentale importanza, per i legislatori, prestare particolare attenzione agli effetti economici e distributivi, intervenendo dove necessario con politiche di redistribuzione, esenzione per le fasce più vulnerabili delle popolazioni o sussidi specifici.
Come già sottolineato poc’anzi, questi risultati si inseriscono in un dibattito più ampio sul come rendere la transizione ecologica più giusta, senza impattare sulle fasce più vulnerabili. In quanto sforzo collettivo, che passa sia da interventi legislativi sia da come reagiranno cittadini e imprese, è necessario che le politiche climatiche tengano conto degli aspetti socioeconomici che potrebbero generare.
Se queste politiche andranno a impoverire le fasce più vulnerabili, si alimenterà di conseguenza il sostegno dei partiti populisti che hanno una visione più radicale riguardo la crisi climatica, compromettendo eventualmente i piani per la transizione. Per questo motivo, è necessario che il design delle policy tenga conto del supporto che gli interventi climatici avranno. Ciò non significa, come suggerivano invece i primi modelli economici sulla crisi climatica, che ci debba essere un trade off tra crescita economica e riduzione delle emissioni: l’enfasi è invece rivolta alle politiche redistributive che interverrebbero per colmare quelle iniquità che potrebbero venirsi a creare. Questo porta a un altro problema che riguarda il reperimento delle risorse necessarie: proprio in questi giorni Laurence Tubiana, economista dietro all’Accordo di Parigi sul clima, ha posto l’attenzione sulla necessità di una maggior tassazione sulle fasce più abbienti della popolazione, inquadrandola proprio nel caso della crisi climatica.
Lo studio si è poi concentrato sulle implicazioni a lungo termine delle restrizioni sul commercio con la Russia, in particolare sull’esportazione di gas naturale. Prima dell’invasione russa dell’Ucraina, infatti, l’Europa dipendeva pesantemente dal gas russo, soprattutto sul lato manifatturiero e su quello domestico. Tale interruzione ha comportato due dinamiche: da una parte la ricerca di fornitori di gas naturale più affidabili, anche se la mancanza di infrastrutture ha reso quest’operazione particolarmente onerosa; dall’altra c’è un impatto sul lungo periodo, in quanto la situazione ha accentuato l’importanza di una transizione verso fonti di energia rinnovabili in un contesto di riduzione delle emissioni di gas serra.
In particolare, ricercatori e ricercatrici hanno considerato due scenari: il primo considera l’interruzione delle forniture di gas russo a partire dal 2030 e accordi per la fornitura di gas naturale con altri paesi, come specificato sopra; il secondo invece una disponibilità continua del gas russo, mantenendo le attuali dinamiche di importazione. In entrambi gli scenari si tiene conto della volontà politica dell’Europa di arrivare a zero emissioni nette entro il 2050, con obiettivi intermedi come quello del 2030.
Nel primo scenario, il picco per il consumo di combustibili fossili dovrebbe arrivare intorno al 2025, mentre al 2050 si sarebbero raggiunti i target climatici. Ciò è dovuto in particolare alle energie rinnovabili che contribuirebbero per oltre il 50 per cento dell’offerta, con un ulteriore 19 per cento dall’energia nucleare. I combustibili fossili giocano comunque ancora un ruolo, soprattutto a causa delle limitate possibilità di sostituzione tecnologica nell’industria pesante, ma anche in quanto necessari per la produzione di idrogeno blu, con impatti ambientali limitati grazie alla possibilità di catturare e stoccare/utilizzare una parte delle emissioni. Giocano un ruolo fondamentale per il raggiungimento dell’obiettivo di neutralità climatica gli impianti di produzione di elettricità alimentati con biomassa ed equipaggiati con tecnologie di CCS, assieme a programmi di riforestazione.
Al contrario, in uno scenario in cui l’import dalla Russia è continuo, si assiste a un aumento della quantità di gas nell’offerta energetica. I risultati ottenuti indicano quindi come l’interruzione delle forniture di gas russo possano essere viste come un’opportunità per spingere l’acceleratore sulla decarbonizzazione del sistema energetico.
Anche in questo caso è importante inquadrare questi risultati in un contesto più ampio che riguarda il dibattito sulle politiche climatiche. Soprattutto dal punto di vista teorico, gli economisti sono concordi nel ritenere che lo strumento su cui far leva per incentivare comportamenti virtuosi sia quello dei prezzi. L’esempio paradigmatico è quello della Carbon Tax, un’imposta che andrebbe a colpire prodotti come benzina e diesel, per fare un esempio pratico. Aumentando il costo di questi beni, non solo i consumatori si ritroverebbero a diminuirne il consumo, ma anche il settore industriale verrebbe riorientato verso la produzione di auto non a combustibili fossili, facendo leva anche sui sussidi all’industria. Tuttavia questo tipo di proposte, nonostante vi siano degli esempi virtuosi, rischiano di gravare soprattutto sulle fasce meno abbienti della popolazione, che dedicano una parte più cospicua delle loro risorse ai consumi. Per questo, fin dagli anni ‘70, si è discusso di politiche, nel campo della crisi climatica, che non agissero sui prezzi quanto sulla quantità. Andando ad esempio a vietare l’importazione del gas russo e mettendo in atto politiche industriali in grado di sostenere le imprese innovative, si spingerebbe il mercato verso una determinata direzione più pulita, senza impattare sulle fasce deboli e quindi con meno contraccolpi dal punto di vista politico.
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