Pubblicato il: 12-6-2024
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L'obiettivo generale del WP 8.4 è di comprendere come l'educazione all’imprenditorialità possa essere un motore di cambiamento positivo nelle comunità, migliorando non solo le prospettive economiche individuali, ma anche contribuendo alla costruzione di una società più coesa e sostenibile.
È in questo contesto di ricerca che il prof. Marco Romano ha realizzato un primo report esplorativo dal titolo "Disadvantaged Entrepreneurship Education in ensuring economic empowerment and fostering social cohesion".
Oltre a fornire un quadro teorico di riferimento, il report utilizza metodi di analisi della letteratura avanzati (STM) per selezionare i contributi scientifici più rilevanti al fine di comprendere quanto la formazione all’imprenditorialità possa generare un impatto positivo sulla coesione sociale, in particolare nei casi di soggetti svantaggiati, come i giovani che non lavorano, studiano o si stanno formando per il lavoro, i disoccupati, i migranti e le persone con disabilità.
Data la difficoltà intrinseca che c’è nel fare impresa in mercati sempre più rischiosi e incerti, gli studiosi negli ultimi anni hanno focalizzato la loro attenzione su quella che va sotto il nome di educazione all'imprenditorialità (EE).
In letteratura l’interpretazione di questo termine varia considerevolmente. In passato si è spesso seguito un approccio più sfumato: la formazione all’imprenditorialità intesa come sensibilizzazione, per diffondere le conoscenze relative all’imprenditorialità, affinché le persone ne possano comprendere l’importanza per la società ed eventualmente per il loro futuro.
Tuttavia, le ricerche più recenti hanno sottolineato maggiormente che lo scopo della formazione all’imprenditorialità è proprio rendere i soggetti capaci di essere imprenditoriali, puntando sulle attività “intraprendenti” delle persone, sulla preferenza per attività di lavoro di tipo imprenditoriale, consapevoli dell’incertezza e del rischio connesso alla scelta di avviare un’impresa.
Una linea ancora più marcata è quella che ritiene scopo ultimo dell’educazione imprenditoriale di impartire conoscenze e abilità per intraprendere una propria attività imprenditoriale. Per entrepreneurial skill si considerano sia competenze cognitive che non cognitive richieste nelle diverse fasi di un’iniziativa imprenditoriale: pensare in modo creativo, fare un piano d’azione, acquisire conoscenze finanziaria, organizzazione e valorizzazione delle risorse, capacità di gestione dell’incertezza, dell’ambiguità e delle dinamiche di gruppo.
Ovviamente c’è uno stretto collegamento tra la formazione all’imprenditorialità e la Terza Missione delle Università Italiane. Le università, infatti, hanno il compito di esportare le proprie conoscenze e di trasferirle al tessuto socioeconomico. Questo può avvenire sia attraverso la tradizionale attività didattica e di ricerca scientifica sia attraverso la Terza Missione che intende puntare sulla valorizzazione della conoscenza prodotta in ogni sua forma, sia tacita che codificata, sostenendo l’attività innovativa universitaria con strumenti di tutela della proprietà intellettuale, ad esempio i brevetti, anche accompagnando la creazione di nuove imprese spin-off accademici oppure iniziative ad elevato potenziale di sviluppo economico promuovendo la nascita di start-up innovative.
Il report dell’Università di Catania si concentra poi sui metodi didattici che vengono dispiegati per la formazione all’imprenditorialità. In particolare, i ricercatori evidenziano come la letteratura abbia individuato due strategie di insegnamento.
La prima, nonché la più tradizionale, si dedica all’insegnamento delle conoscenze e delle capacità legate all’imprenditorialità. Se spiegare concetti di imprenditorialità è semplice, più difficile è invece cercare di impartire determinate capacità. Per comprenderlo, in maniera quasi paradossale, può essere utile fare un esempio: tutti noi abbiamo la capacità di andare in bicicletta, eppure solo in pochi sarebbero in grado di scrivere le equazioni del moto che governano l’attività che stiamo svolgendo.
Nel campo dell'imprenditorialità avviene quindi il contrario: se trasferire conoscenze è semplice, metterle in pratica è tutto un altro discorso. Per cercare di superare queste difficoltà, negli ultimi anni l’insegnamento si è andato arricchendo di momenti di apprendimento all’interno dei contesti imprenditoriali, analisi di casi studio, incontri e seminari di manager e imprenditori. Tuttavia, in questo processo, la formazione delle capacità critiche per il successo dell’iniziativa imprenditoriale è comunque passiva. Questi metodi, per quanto semplici da implementare, si sono dimostrati meno efficaci nello sviluppo effettivo di capacità imprenditoriali.
Per sopperire a questa mancanza negli ultimi anni si sta tentando la strada di un apprendimento più attivo, in cui il ruolo del docente è quello di accompagnare lo studente attraverso attività più applicative. In particolare, si è notato che avere l’opportunità un’interazione e un confronto diretto con soggetti che svolgono a vario titolo un ruolo cruciale nel processo di creazione di una nuova impresa, ad esempio imprenditori, business angels, venture capitalist, investitori istituzionali, inseriti nel mondo imprenditoriale non solo è più efficace per acquisire conoscenze e capacità, ma anche per stimolare l’attitudine all’imprenditorialità.
Un aspetto importante sottolineato nel report riguarda il network. In generale infatti la formazione all’imprenditorialità è inserita all’interno di programmi di economia e management, arricchiti grazie alla partecipazione di esperti del settore. È invece importante ampliare la rete di contatti per stimolare l’imprenditorialità. In primo luogo nel campo delle cosiddette discipline STEM - quelle scientifiche - dove vi è un’elevata probabilità che emergano idee innovative in grado di avere ricadute economiche a elevato valore aggiunto. Si pensi ad esempio ai due fondatori di Google, la cui fortuna è dovuta proprio al loro lavoro di dottorato che riguardava gli algoritmi di ricerca su rete. In secondo luogo il network deve andare al di là del mondo universitario, permettendo agli studenti di essere in contatto non solo con imprenditori ma anche con imprese di venture capital e investitori. Questo creerebbe un ambiente simbiotico con le università permettendo un mutuo beneficio.
Gli autori del report, appoggiandosi sulla letteratura emersa in questi anni, individuano quindi quattro strategie per la formazione all’imprenditorialità.
La strategia base è proprio quella di corsi teorici, all’interno di dipartimenti di economia e management, che introducono gli studenti alle conoscenze di base dell’imprenditorialità. Questa strategia è la più semplice da implementare e valutare.
La seconda strategia è quella ibrida, in cui pur rimanendo confinata nei dipartimenti di economia e management, alle lezioni teoriche si affiancano analisi di case study e conferenze di manager e imprenditori.
La terza strategia ha invece un approccio più multidisciplinare, in cui oltre a quanto detto sopra, estesa anche a dipartimenti non di economia e management. Questa strategia si basa su un learning by doing, con attività di gruppo e di mentoring per la realizzazione di progetti innovativi.
Infine lo scenario ideale è quello che gli autori denotano come eco-sistemico. In questo le università stesse passano da incubatori ad acceleratori di programmi di imprenditorialità, inseriti in un network di stakeholder come appunto studenti, imprenditori, potenziali investitori, aziende.
Quanto presentato mostra come implementare una strategia eco-sistemica che garantisca un rapporto proficuo tra le università e gli attori dell’ecosistema. Questo richiede un processo di adattamento delle università. Per allineare la formazione all’imprenditorialità e la terza missione delle università, infatti, è necessaria una transizione verso un modello di "piattaforma universitaria", che coinvolge un ecosistema di partner esterni per implementare diverse tipologie di contenuti accademici da offrire in modo trasparente.
È ormai piuttosto consolidata e copiosa la letteratura che afferma che la partecipazione a programmi di formazione imprenditoriale contribuisce a sviluppare competenze tecniche essenziali per avviare un'impresa di successo e il loro sviluppo può tradursi in una maggiore partecipazione e inclusione sociale.
Le analisi condotte negli ultimi dieci anni dalla European Commission, a tal riguardo, hanno “certificato” che i partecipanti a programmi di educazione all'imprenditorialità mostrano miglioramenti così significativi in queste soft skills da diventare meta-condizioni di “facilitazione all’inclusione”.
La formazione manageriale è diventata anche un importante supporto per le categorie fragili nel raggiungere una maggiore autonomia economica; i programmi di microcredito associati a corsi di formazione imprenditoriale, ad esempio, hanno mostrato risultati promettenti nel migliorare la stabilità finanziaria delle famiglie a basso reddito. Nello specifico i programmi di microimprenditorialità, sviluppati in contesti rurali, hanno svelato un aumento significativo del numero di piccole imprese gestite da donne e giovani, contribuendo in maniera stabile allo sviluppo economico delle local community.
Associata ai meccanismi di empowerment, l'autoimprenditorialità genera una via per allontanarsi dal lavoro informale e dalla disoccupazione; gli studi condotti da Blanchflower e Oswald hanno ampiamente dimostrato che l'imprenditorialità riduce anche “indirettamente” i tassi di disoccupazione creando posti di lavoro, dunque, non solo per gli imprenditori stessi, ma anche per tanti altri soggetti appartenenti alle locali comunità svantaggiate. L'imprenditorialità quindi può anche contribuire a migliorare il benessere sociale delle categorie fragili, promuovendo una maggiore partecipazione attiva e integrata nel territorio locale di riferimento.
L'educazione all'imprenditorialità è profondamente influenzata dal contesto sociale ed economico in cui si genera e consolida. I fattori macroeconomici, la cultura imprenditoriale e di policy che ricadono in un ambito territoriale possono, infatti, accrescerne o limitarne gli effetti attesi.
In contesti economici e sociali svantaggiati o nei periodi di recessione economica, ad esempio, la sopravvivenza per le nuove imprese è ancora più a rischio che in aree territoriali più equilibrate sotto il profilo economico e sociale; per le start-up di neo imprenditori diventa, in contesti marginalizzati, “un’impresa nell’impresa” far attecchire e crescere, la propria business idea nonostante il management abbia ricevuto una solida formazione imprenditoriale.
I policy maker giocano, a tal riguardo, un ruolo critico nel sostenere l'imprenditorialità: l’adozione di incentivi fiscali, la facilità di accesso al credito, agevolazioni relative al costo del lavoro e programmi di sostegno all’autoimprenditorialità sono solo alcuni esempi di come il “contesto”, in cui le imprese si insediano, possa o meno condizionarne la sopravvivenza stessa nel medio periodo.
La presenza di un ambiente imprenditoriale favorevole può facilitare, infatti, lo sviluppo sul campo della formazione a monte ricevuta amplificandone così gli effetti positivi. D'altro canto, un contesto normativo rigido e poco “accogliente” può significativamente ostacolare gli aspiranti imprenditori, limitando seppur indirettamente l'efficacia stessa dei programmi formativi.
La formazione all’imprenditorialità si lega a doppio filo sulla capacità delle università di generare spillover nel sistema economico ad alta potenzialità. Proprio il concetto di ecosistema è stato applicato a casi esemplari come quello della Silicon Valley. La capacità innovativa della Silicon Valley non dipende soltanto dal contesto economico, ma anche dalla ricerca di università capaci di generare un impatto positivo nel contesto di riferimento, ad esempio Stanford e Berkeley. A questo va aggiunto il supporto che il governo federale attraverso le sue varie agenzie ha saputo dare a progetti innovativi.
Un ecosistema che valorizza l'innovazione e l'imprenditorialità affiancato dalla presenza di una rete di supporto, come incubatori, acceleratori e mentor, può fornire un contesto facilitatore per la crescita e lo sviluppo di imprenditorialità. Gli effetti dello spillover, nell’ambito dell'educazione all'imprenditorialità generano, infatti, impatti largamente positivi che vanno oltre l'individuo, influenzando la comunità e l'economia locale.
Gli aiuti di Stato, progetti finanziati mirati, leggi agevolative possono, come ampiamente indagato in letteratura, originare una sorta di “fertilità territoriale”, ovvero, ambiti geografici connotati da una particolare produttività che si autoalimenta attraverso la creazione di nuove imprese che a loro volta contribuiscono alla crescita economica locale, creando nuovi posti di lavoro, stimolando l'innovazione e aumentando la competitività. Questo fenomeno alcune volte spontaneo altre volte, appunto, stimolato da una policy illuminata, alimenta un ciclo virtuoso in cui il successo imprenditoriale genera ulteriori opportunità di business e di sviluppo economico per una comunità locale.
Gli avanzamenti della ricerca del gruppo di lavoro sulla Sostenibilità sociale coordinato dall'Università di Catania.
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