Pubblicato il: 31-10-2024
2024
Per la decarbonizzazione e la transizione climatica, è infatti di cruciale importanza l’efficienza energetica del patrimonio immobiliare del settore pubblico. Secondo gli ultimi dati pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze aggiornati al 2018, gli immobili detenuti dal pubblico sono 2.6 milioni, con un milione e 150 mila fabbricati.
Proprio sull’analisi dell’efficientamento degli immobili detenuti dalla PA si è concentrato il lavoro di Intesa Sanpaolo, inserito all’interno del contesto del Progetto Grins e in particolare del WP6.2 dello Spoke 6, che riguarda in generale l’efficientamento degli edifici.
Come prima cosa, lo studio offre una panoramica dal punto di vista del contesto legislativo che ha interessato gli immobili della PA nel corso degli ultimi anni. Dal punto di vista europeo, due direttive-Energy Efficiency Directive III (EED III) del 2023 e Energy Performance of Buildings (EPBD) del 2024- hanno introdotto delle misure per la transizione energetica incentrare sul rafforzamento del ruolo della pubblica amministrazione.
Di particolare importanza è l’EED III che impone la riqualificazione di almeno il 3 per cento della superficie climatizzata degli immobili pubblici ogni anno e come obiettivo una riduzione del consumo energetico pari all’1.9 per cento per il settore pubblico.
Per quel che riguarda invece la direttiva più recente, l’EPBD, vi è come vincolo che le nuove costruzioni pubbliche dovranno essere a emissioni zero entro il 2028, anticipando quindi il target fissato al 2030 per gli edifici privati. La direttiva però si interessa anche agli edifici esistenti, per cui l’obiettivo è il net zero entro il 2050, comportando quindi un aumento delle ristrutturazioni, Sempre secondo la direttiva, ogni Stato si dovrà impegnare a ridurre il consumo di energia del 16% entro il 2030 e del 20-22% entro il 2035. Gli strumenti principali messi in atto dai governi sono stati il Piano Nazionale Integrato per l'Energia e il Clima (PNIEC), che è stato recentemente aggiornato, e il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) soprattutto dopo le integrazioni del pacchetto RePowerEU.
Ma se gli strumenti sono stati predisposti, i risultati sono stati inferiori rispetto ai target preposti. Già nel 2014, recependo una direttiva europea, il nostro paese aveva lanciato il Programma di Riqualificazione Energetica della Pubblica Amministrazione Centrale (PREPAC). Un’analisi della Corte dei Conti, che valuta il programma tra il 2014 e il 2020, rivela però che la misura non ha avuto gli effetti sperati. La normativa più recente permette poi di integrare i dati e avere una valutazione che arriva fino al 2022. Ma i risultati non migliorano, anzi: dal 2019 si assiste infatti a una flessione del tasso medio di riqualificazione, in virtù dei minori progetti approvati.
Un’analisi della situazione attuale degli immobili pubblici, sottolinea lo studio, è resa complicata dalla frammentarietà delle fonti a cui si deve attingere.
Due sono state le fonti principali da cui ha attinto l’autrice dello studio per la sua analisi. Da una parte gli Attestati di Prestazione Energetica (APE). Questi forniscono informazioni sulle caratteristiche energetiche di un edificio e sono necessari in caso di compravendita, donazione, locazione e ristrutturazioni. Inoltre, è obbligatorio per gli edifici pubblici che superano i 250 m² di superficie utile e per le nuove costruzioni. Dall’altra il database del MEF, che fornisce informazioni per stimare lo stato attuale del patrimonio immobiliare basandosi su anno di costruzione e classe climatica di localizzazione dell’immobile.
Osservando i dati provenienti dagli APE, si nota che il patrimonio immobiliare pubblico a uso residenziale soffre degli stessi problemi del patrimonio immobiliare privato. Si osserva infatti una scarsa efficienza energetica degli edifici, con la maggior parte degli edifici situata nelle classi energetiche più basse (G ed F). Solo il 10 per cento degli edifici pubblici a utilizzo residenziale è situato nelle due classi energetiche più efficienti (B ed A).
Questo, suggerisce l’autrice, mostra in maniera inequivocabile come “salvo limitate eccezioni il patrimonio di edifici residenziali pubblici debba essere riqualificato in maniera importante.”
Veniamo invece al censimento del MEF. Questo, rileva l’autrice, risulta più lacunoso. Infatti, mentre riesce a individuare con precisioni gli immobili detenuti dai comuni, il quadro degli immobili di proprietà o gestiti dalle aziende dell’Istituto Autonomo Case Popolari è più complesso, in quanto queste non hanno obbligo di comunicazione al MEF.
Gli immobili segnalati dalle amministrazioni comunai come appartenenti alla categoria Edilizia Residenziale Pubblica ammontano a 263 mila, con una superficie di 16 milioni di metri quadri. Il 79 percento degli edifici, e oltre l’80 per cento dei metri quadri, sono classificati come abitazione, mentre il restante si divide tra garage/posto auto/cantina e altro.
L’analisi mostra come il 47 per cento degli edifici è stato costruito più di 40 anni fa, mentre il 34 per cento è stato costruito negli anni ‘80. In quegli anni infatti si hanno varie politiche volte a promuovere la costruzione di edifici residenziali pubblici. Il più importante è sicuramente il piano INA Casa, voluto da Amintore Fanfani. Si veniva fuori dalla Seconda Guerra Mondiale, in un contesto di rapida crescita dell’economia italiana che andava incontro a un’industrializzazione che influenzava anche le opportunità degli individui. Di quegli anni è infatti la grande migrazione dal sud verso le fabbriche del nord, che per questo motivo ancora oggi detiene la maggior parte degli edifici. Questa migrazione verso le città e in generale la pianura richiedeva dei piani di urbanizzazione per garantire una mobilità e una socialità agevolata per i lavoratori delle nuove fabbriche e delle nuove attività economiche che nascevano.
Ancora negli anni ‘80 i governi italiani mostravano una certa attenzione ai piani di edilizia pubblica. Con gli anni ‘90, la crisi valutaria e la difficile situazione sul fronte del bilancio pubblico, l’edilizia pubblica nel nostro paese è entrata in crisi. Non a caso, come mostrano i dati, il nostro paese soffre di una carenza strutturale di alloggi popolari, nonostante i piani dei governi recenti volti a risolvere la crisi abitativa in situazioni come le grandi città universitarie, dove però vi è una notevole partecipazione del settore privato. Da segnalare anche i problemi di coordinamento: infatti, il 41 per cento degli immobili non è allocata, percentuale particolarmente alta.
In particolare, per fornire una panoramica che tenga conto della complessità della situazione, è necessario tenere conto della distribuzione degli edifici in base alla Classe Climatica. Questa classificazione su base comunale venne introdotta nel 1993 ed è basata sulle temperature medie del comune. In particolare, ogni comune è classificato in una delle sei zone, dalla A (quella più calda) alla F (quella più fredda). Inoltre, permette di considerare la necessità di riscaldamento di cui necessitano le abitazioni e quindi una valutazione dell’efficienza energetica più realistica.
La maggior parte degli edifici si trova nella zona climatica E, con una superficie che rappresenta il 41 per cento del totale. A seguire la zona D e poi rispettivamente C e B. In maniera curiosa, non ci sono edifici nella zona A, mentre solo un numero limitato si trova nella zona climatica f, quella più fredda. È importante quindi considerare la relazione tra l’età degli edifici e la zona climatica in cui si trovano. L’analisi svolta dalla ricercatrice mostra come:
“...gli immobili più vecchi risultano localizzati nelle zone climatiche con minori gradi giorno, mentre nelle zone climatiche a minor fabbisogno energetico si trova una maggiore incidenza di abitazioni realizzate dopo il 1980”.
Questo suggerisce che, mentre le aree più fredde presentano immobili più datati, le zone più calde hanno visto un maggior sviluppo recente, con edifici più moderni e, di conseguenza, con una maggior efficienza energetica. Quindi è ipotizzabile che, salvo limitate eccezioni, il patrimonio debba essere riqualificato in maniera importante.
Fondazione GRINS
Growing Resilient,
Inclusive and Sustainable
Galleria Ugo Bassi 1, 40121, Bologna, IT
C.F/P.IVA 91451720378
Finanziato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), Missione 4 (Infrastruttura e ricerca), Componente 2 (Dalla Ricerca all’Impresa), Investimento 1.3 (Partnership Estese), Tematica 9 (Sostenibilità economica e finanziaria di sistemi e territori).